SCONFINAMENTI DELLA PITTURA
Marco Meneguzzo
“Antologia breve” sembra una contraddizione in termini: si contrappongono l’esaustivo – nel nostro caso tutto ciò che serve a comprendere il lavoro di Piero Zuccaro – e la brevità che solitamente esclude il concetto di qualcosa di esauriente. Invece, un artista non procede secondo un tempo lineare, ma secondo cicli espressivi e produttivi che subiscono accelerazioni improvvise, accumuli di sensibilità, cadute di tensione, e che soprattutto costituiscono un insieme compatto rispetto alle opere precedenti, che vivono delle stesse ciclicità, e che col nuovo ciclo acquistano nuove valenze, rivelano nuove chiavi di lettura. Così, sette anni di lavoro – dal 2007 al 2014 – costringono a rivedere anche tutto il lavoro precedente con occhi rinnovati, così come il prossimo ciclo ci costringerà a guardare a questo presente con aggiunte e cambiamenti di senso, facendo diventare ogni periodo del lavoro artistico – “breve” quanto si vuole, ma compatto nella sua concezione – un’antologia completa, con la consapevolezza che se ci troviamo di fronte a (relativamente) pochi lavori, questi sono idealmente accompagnati da tutti quelli che li hanno preceduti e, per chi riesce a prevedere, anche da tutti quelli futuri…
Cominciamo, allora. Tre tipologie si mostrano contemporaneamente in questa mostra agrigentina: grandi tele, piccoli pastelli e un’installazione videoambientale. Le polarità si attraggono e attraggono (lo dice anche la fisica…), per cui sembra che la pittura su tela sia in un certo modo “contenuta” entro le polarità concettuali del video e del pastello, come se abitasse un territorio i cui confini ideali – per adesso – sono costituiti appunto da queste due “varianti” della pittura stessa. Come infatti nelle zone di confine le lingue si confondono e prendono a prestito le une dalle altre termini, parole, frasi e costruzioni sintattiche, così – se adottiamo questa metafora plasticamente visiva – il grande territorio della pittura “sconfina” per così dire in regioni che risentono della sua influenza, che forse ne sono un’estensione, ma che formalmente appartengono ad altri luoghi linguistici. Certo, il pastello a olio è figlio del disegno e parente stretto della pittura, con cui condivide tutto con la sola eccezione del supporto e dello strumento tracciante, mentre il video è più ostico da far rientrare nella categoria, e anzi parrebbe costituire l’antagonista della pittura, sia per quanto riguarda lo strumento vero e proprio – che qualcuno, agli albori della videoarte, chiamava addirittura “pennello elettronico”, ipotizzando una vera e propria sostituzione -, sia per l’introduzione reale e non virtuale dell’elemento-tempo.
Tuttavia, viviamo in epoche di ibridazioni massime, dove le discipline sono state sostituite dalle attitudini, e le definizioni dalle sensazioni, per cui tutto si può mescolare, sovrapporre senza escludere, affiancare senza distruggere, per cui, talvolta, il video può andare di pari passo con la pittura, soprattutto se l’attitudine che spinge l’artista a usare ora l’uno, ora l’altro linguaggio, appartiene al bagaglio pre-formale di entrambi. Nel caso di Piero Zuccaro e della sua pulsione creatrice questo non solo è ipotizzabile, ma risulta perfettamente evidente, una volta che si riesca a liberarsi di un concetto puramente disciplinare del fare artistico.
La parola che definisce ogni opera di Zuccaro, sin dagli esordi agli inizi degli anni Novanta, potrebbe essere “fluidità”. Ogni suo dipinto – i cui corollari espressivi e semantici analizzeremo più avanti – è improntato a questo concetto, e persino ogni indizio, ogni narrazione dell’artista conduce a questa sensazione, come quando racconta della fascinazione subita nel guardare l’acqua oleosa dei porti, che crea fantasmagorie cangianti, oppure quando nella sua (auto)biografia sottolinea il fatto di aver studiato danza – con la coreografa Donatella Capraro, coautrice e attrice di “Fly By”, il video ambientale presentato in mostra -, che altro non è se non fluidità del corpo nello spazio. Ma è soprattutto nella sua pittura che la fluidità si fa visibile, nelle “paste alte” stese a spatola del colore a olio, nel movimento sinuoso che resta fissato in ogni pennellata, nella stessa scelta dell’olio, che non si asciuga mai e la cui lucentezza fa scivolare la luce sulle creste e sugli avvallamenti creati dal colpo di spatola, nell’idea di mescolare i pigmenti sino ad ottenere un colore mescolato, persino “sporco”, che è però il risultato di mille colori che si sono amalgamati . Tutto, dunque, ci parla di questo: di come la materia sia mutevole, di come ogni cosa rischi per tutto il tempo della sua esistenza di ritornare a un caos primordiale, indefinibile, dove ciò che è, ciò che è stata, si perde quasi completamente se non fosse per certe tracce cromatiche che ancora fanno presagire una forma. A questo punto è inevitabile, e giusto, il riferimento all’Informale che tutti gli esegeti del lavoro di Zuccaro –e lui stesso – hanno richiamato, stabilendo parentele illustri – e ancora una volta giuste – con artisti come Nicolas De Stael, Ennio Morlotti, Jean Paul Riopelle, su su fino ai più fisicamente vicini come Franco Sarnari, Attilio Forgioli o Piero Guccione ( tra coloro che sicuramente Zuccaro non conosce, ma che sembrano possedere lo stesso spirito, aggiungerei soprattutto il francese Eugène Leroy, forse il torinese Piero Ruggeri, e per quanto riguarda i pastelli persino un periodo anni Ottanta dell’americano Ross Bleckner, o certi lavori degli stessi anni del nostro Enrico Pusole): l’Informe, l’Abisso, l’Origine sono certo un buon punto di partenza e contemporaneamente un buon punto d’arrivo, perché il concetto di caos implica una circolarità, un non-tempo che elimina ogni differenza tra inizio e fine, e dove il mutamento è paradossalmente sempre uguale a se stesso. Tra i pochi concetti che questa assolutezza primigenia non esclude è, ancora una volta, l’idea di fluidità, che comunque Zuccaro affronta da artista contemporaneo, e non da nostalgico degli anni Cinquanta. A questo proposito,una prova su tutte: la dimensione delle sue opere. Si tratta infatti di dimensioni quasi sempre cospicue, di cui le immagini riprodotte non possono dar conto, essendo confinate nei limiti della pagina, ma che nella realtà dell’opera riescono a coprire tutto lo spazio visivo dello spettatore, che in questo modo vi si sente attirato dentro, percependosi come una parte di quel magma senza orizzonte.
Ecco allora che la videoinstallazione – videoinstallazione, si badi, non solo video … – diventa immediatamente parte di questo processo magmatico che risponde a quell’attitudine di fluidità, molto prima che a qualsivoglia concretizzazione formale, artistica, fisica: Zuccaro costruisce infatti un luogo entro cui lo spettatore è immerso (non a caso, poi, le immagini riguardano proprio riprese subacquee, cioè immerse in un fluido, di un corpo femminile che fluttua morbidamente senza peso ma anche quasi senza forma), e dove il tempo non esiste più, non essendoci nessun tipo di narrazione, e andando le immagini secondo una sincronia da cui, appunto, è assente ogni possibile diacronia, condizione base di ogni storia, di ogni sviluppo narrativo. Per questo la sua videoinstallazione ha più a che vedere con lo spazio che col tempo, e quindi è possibile considerarla per così dire “sub specie picturae”, come un’estensione possibile dell’idea di pittura, di quest’ultima non rinnegando nulla e anzi accentuando e allargando i suoi confini operativi e strumentali, fermo restandone invece lo statuto essenziale di rapporto con lo spazio, con la visività, con la rappresentazione. “Fly By” è dunque un chiaro esempio di prosecuzione della pittura “con altri mezzi”, tanto per citare von Clausewitz …
Una sorta di irrequietezza nei confronti della pittura da parte dei pittori è patrimonio comune delle ultime generazioni, e Zuccaro non fa eccezione: nel suo caso la grande dimensione, la videoinstallazione e, di converso, il piccolo formato dei pastelli, il ritorno a una dimensione apparentemente intima, sono la prova di quanto si cerchi di uscire dalla tradizione pittorica, pur riconoscendone l’insostituibilità. In questo dilemma comunque produttivo e positivo, ci si potrebbe chiedere perché quei pastelli debbano appartenere a questa urgenza innovatrice, e non invece al canone tradizionale del paesaggio, tirando magari in ballo – e non a sproposito – la cosiddetta Scuola di Scicli di cui Zuccaro fa tangenzialmente parte, almeno secondo la vulgata. Dopotutto, si tratta di un lampadario dentro la cattedrale, un’immagine che avrebbe potuto essere dipinta da Francesco Lojacono, il grande paesaggista siciliano del XIX secolo … invece, sono proprio l’accidentalità del soggetto, la sua adusata tradizionalità che si spinge fino alla citazione, il taglio dell’immagine quasi sempre aprospettico e dal basso che ci dicono qualcosa di un possibile rinnovamento pittorico, se non altro nel percorso di Zuccaro: in quell’immagine ci sono lo spazio e la materia, ma la polverizzazione dell’uno e dell’altra nel pigmento del pastello, l’impossibilità di riconoscere immediatamente il soggetto pur sapendo che un soggetto c’è – benché non importante in sé e per sé ai fini della visione -, lo stravolgimento dello spazio tradizionale pur in presenza di tutti gli strumenti espressivi tradizionali, costringono a ripensare proprio quegli elementi ultratradizionali della pittura quali sono, appunto, spazio e materia.