“(…) l’architettura diviene così sostanza instabile, imponderabile, oscillante, i muri costruiti di tremule iridescenze, marmi che assumono la natura dell’acqua, figure umane rarefatte in fantasmi (…)”, così Marcel Brion una decina d’anni prima che Pietro Zuccaro nascesse. A quel tempo si teorizzava ancora sulla pittura astratta e lo studioso francese, dopo aver tracciato il percorso di Nicolas de Stael (“È morto per aver troppo amato il sogno di una materia spirituale in cui il mondo potesse essere ancora presente e riconoscibile …”), indugiava appunto, in quel testo, sullo sfuggente equilibrio fra realtà e astrazione. Zuccaro ama la pittura di de Stael; ne ha appena visitato l’antologica parigina e la sua stessa pittura dice quanto il francese (soprattutto nel lavoro degli anni 1946-1948) lo abbia intrigato. de Stael non era tutto in quello scorcio di decennio (anche se in consonanza con altri pittori della multiforme Scuola di Parigi – Riopelle, a far qualche nome, Lanskoy, Vieira da Silva, Bazaine – egli viveva allora il momento forse più alto della sua breve parabola); essenziali alla sua poetica sono anche la levità, la rarefazione, gli sfinimenti degli ultimi anni, quando correggendo il tiro egli scriveva: “so cos’è la mia pittura al di là delle sue apparenze, della violenza, (…) è una cosa fragile nel senso del buono, del sublime, fragile come l’amore…”.
Zuccaro, a voler mantenere il vago riferimento al pittore francese, ne rappresenta semmai la sintesi: il gusto della materia, di cui tanti hanno comprensibilmente ribadito la matrice informale, e insieme la componente aerea, liquida, lievitante. Sintesi che tuttavia non resta estranea sia agli argomenti di Brion citati all’inizio – sorprendenti per la puntuale rispondenza alla pittura di Zuccaro – sia ai temi di tanta letteratura sull’astrattismo da un secolo a questa parte. Lo stesso pittore, senza farne problema, del problema tocca il cuore col suo stesso metodo di lavoro. Egli infatti non muove che da cosa vista, gli urge non soltanto l’emozione ma lo sguardo: la fontana, la chiesa, il volo dei colombi, la sequenza filmica di una donna caduta; e di ciò che vede conserva memoria in uno schizzo o in una fotografia, che sono poi tramite fra la prima emozione e l’immagine che ne nasce. È procedimento diverso da quello della generalità dei pittori astratti o informali, che pure tanto lo intrigano.
Anche se siamo catturati al primo sguardo dalla malia dell’impianto cromatico è difficile – conti molto o poco – non chiedersi quanto nell’immagine permanga del soggetto da cui l’artista ha preso le mosse. Sappiamo che di esso, sulla tela, è stato più o meno fedelmente tracciato il disegno prima che la massa cromatica lo rifondesse nel suo magma: e il titolo – fontana, fiori d’acqua, figura – vi fa esplicito riferimento. Una Figura di quest’anno può aiutarci evidenziando, non fosse altro, una squisitezza cromatica che, di lontana origine impressionista, ha permeato i versanti più diversi della pittura novecentesca, informale compreso. Non Pollock ma Fautrier, non Kline ma de Stael (basterebbero certe pagine commosse di Pierre Lecuire sui grigi del francese), fino all’iconoclasta Bacon, che filtrava tanti dei suoi veleni da Renoir o da Matisse. Il colore di Zuccaro, non soltanto nella figura citata, della quale egli dichiara il vago riferimento bonnardiano, è di matrice francese. Bonnard aveva dipinto il celebre Nudo nella vasca da bagno del Museo del Petit Palais piuttosto tardi, nel 1936, raccogliendovi il nettare delle sue quintessenze cromatiche e miracolosamente sposando nostalgie impressioniste e simboliste, da Monet a Redon. Non era questo ovviamente l’intento di Zuccaro, né sappiamo quali mutamenti nel suo processo mentale e operativo produca il passaggio dal soggetto di natura (fiori, acqua, architettura) alla – peraltro infrequente – figura umana. Certo l’eco delle struggenti malinconie di Bonnard, sulla cui modernità Jean Clair ha speso parole acute, – e con le malinconie le malie, le briglie sciolte del colorismo più raffinato – nel catanese sono evidenti. Ma ancora una volta soccorre il più volte citato de Stael, un cui tardo Nudo in piedi nella Figura di Zuccaro, consapevolmente o no, è almeno altrettanto presente.
La tela di de Stael (collezione privata di Zurigo) è del 1953, anno di lunghi viaggi e in cui l’artista scriveva al già citato Lecuire: “non ci sono che due cose valide in arte: la folgorazione dell’autorità e quella dell’esitazione”; e lui, a due anni dalla tragica morte, le conosceva e le realizzava entrambe. La pigmentazione del nudo bonnardiano, quanto che sia corposa, è trascolorante, opalescente, iridescente, e l’artista stravinse la scommessa della trasognata fantasmagoria che avvolge l’incantevole giovane corpo. Il colore di de Stael al paragone è statico e sordo, cementato con la cazzuola, ma gli interni, sepolti succhi che lo nutrono non sono meno cocenti e struggenti. E tornano le parole di Lecuire: “Non ci sarebbe luce in questa pittura, non atmosfera né trasparenza, l’occhio sarebbe sigillo nel cemento, l’aria non circolerebbe, non ci sarebbe felicità possibile se non ci fossero i famosi grigi”: quei grigi lunari al cui contatto, nel Nudo in piedi, le ocre e le garanze sanguinano.
La pittura di Zuccaro per maturità d’artista ben conosce tutto ciò. La Figura di cui s’è detto rassoda la pasta cromatica e fonde le grasse pennellate in stesure più compatte, nasconde e sembra murare ogni varco, ma le modulazioni cromatiche si sono fatte ancora più sottili, e quelle stesure sono spazio d’aria, d’acqua, di carne trepidante.
Da quanto si viene dicendo la questione dell’astrattismo di Zuccaro appare risolta nel senso dell’essenziale, costitutivo legame col reale; lui stesso ribadisce l’apporto imprescindibile dell’esperienza anche visiva nella visione poetica. Ma quella dell’astrattismo rischia d’essere questione di lana caprina. Mondrian è astratto come Rothko? Burri come Dorazio? Quando Kandinskij è davvero astratto? E rileva, la risposta a questi interrogativi, per l’arte di ciascuno? Zuccaro per suo conto astratto non è mai. I tocchi corposi di colore, deposti col grosso pennello o modellati con la stecca quasi in bassorilievo, non mimano gli spruzzi d’acqua della Fontana né le statue che la ornano; non vi alludono, eppure le rivivono e ne sono imbevuti. In una pittura saporosa che bene ha compreso e assimilato il più raffinato colorismo europeo del Novecento, quei tocchi grumosi – in un’orgia tuttavia lieve come un alito – s’inseguono luminosi, ariosi e liquidi. Così i Fiori d’acqua fluttuano tra gli echi, le pause e le concrezioni di un’infinita, imprendibile gamma di cobalti, ignari compagni, immersi, affioranti, di un’invisibile Ofelia.
La struttura di quest’ultima immagine dà conto di un ancoraggio compositivo (qui il latente reticolato di diagonali incrociate) che nella pittura di Zuccaro a prima vista potrebbe sfuggire. Non è l’eco di tanta, di troppa geometria astrattista di vaga estrazione mondrianiana; nell’invincibile rapporto col soggetto Zuccaro procede sulla scorta di sue proprie, salde esigenze formali: latamente definite nel primo tracciato, apparentemente travolte dall’irrompere della miriade di segni colorati che all’immagine fanno da base, e infine celato supporto, strutturante e costitutivo, della versione finale. Ma l’esigenza formale non è altro dalla visione stessa; essa fa corpo con l’inesauribile linfa che nutre e colma di umori il colore, con la felicità del tocco, la libertà, l’inventiva, la cultura dell’artista. Zuccaro non si affida mai al caso, eppure non calcola mai, non programma; segue d’istinto il dialogo serrato con l’immagine che si viene formando, stretto all’emozione che dalla prima pennellata lo accompagna all’ultima.
Una bellissima tela sui Girasoli, la più ampia tra quelle in mostra, pone la questione del riferimento a Morlotti, il cui lavoro certamente Zuccaro apprezza ma dalla cui poetica si discosta non poco. Non soltanto i trascorsi picassiani del grande lombardo, ma il suo stesso approccio al mondo e all’immagine, la materia aspra, rasciugata di umori che non siano di un tempo immemore, remoto da ogni quotidianità – non appartengono a Zuccaro, che non a caso sente ancora quel retaggio impressionista che non è mai stato di Morlotti. Tuttavia tra quanti girasoli fioriscono nella pittura europea (e il ricordo dei più celebri fra tutti non può essere estraneo a chiunque ancora vi si dedichi) è in questi di Morlotti che quelli di Zuccaro trovano riscontro segreto, comunque il lombardo li chiamasse: rose o sterpi, calendole o teschi. La linfa scorre ancora nei fiori del catanese, il magma che li ingloba ne è intriso: così come dell’inesauribile polla che fresca come la giovinezza dell’artista ne nutre tutta la pittura, e del velo sottile di malinconia riverberante sulle ocre venate di azzurri, di rosa, di trepide inafferrabili attese.
Guido Giuffrè
(In Piero Zuccaro,Opere 1997-2004,salarchi immagini)