Attorno a Van Gogh.
Otto pittori e i colori della vita.
La mostra Van Gogh. I colori della vita – ampia e di grande qualità per le opere che vi sono contenute, provenienti da diversi musei internazionali nel Centro San Gaetano a Padova, mi ha suggerito la possibilità di tornare a lavorare anche sul versante della pittura contemporanea. (…)
Con questa mostra, e con questo libro che l’accompagna, arriva una sorta di seconda puntata che lega otto artisti, donne e uomini in Italia, a Vincent Van Gogh. Ho isolato alcuni temi all’interno della sua opera, e sopra essi il pittore olandese aveva indugiato a lungo. Mi sono guardato intorno, ho rivisto pittori con i quali già avevo lavorato in un tempo passato, altri con i quali invece la consuetudine non c’era quasi mai stata. Li ho scelti perché sentivo in loro una vicinanza a quei tempi, a quei canti di parole smozzicate e colori che ti arrivano ancora fin dentro gli occhi. E poi c’è solo l’anima. (…)
E lo sappiamo. Van Gogh ha amato il cielo, se n’è fatto mantello in ogni modo, dal Brabante fino a Auvers, scrutandolo e lasciando che diventasse destino. Nel cielo della sua pittura sono accadute cose infinite, da non poterle nemmeno raccontare tutte. Nella sua pittura il cielo è l’alfa e l’omega e quello che vi succede dentro non è altro che la vita che passa. Come se questa alterità non fosse essa stessa la presenza del divino.
La ricerca del divino al di fuori dei dogmi e dei riti è stata sempre una prerogativa dell’uomo prima ancora del pittore. Ma dal momento in cui uomo e pittore sono diventati una cosa sola, l’anelito verso una religiosità che si era nel frattempo fatta sempre più confusa ha aperto verso un whitmaniano espandersi nell’infinito. Essere contenuto in quell’infinito di cui la pittura ha rappresentato l’essenza. In questo la natura per Van Gogh è stata non solo il termine di paragone ma il luogo in cui la sua religiosità, mutatasi in spiritualità, si è inscritta. Il cielo non poteva che rappresentare dunque il punto di approdo di un simile percorso.
Van Gogh ha dipinto tanti cieli, li ha sparsi nella loro luce diurna, azzurra, stracciata di nuvole bianchissime aggrovigliate come unghie d’animale o frutti nell’aria. Li ha sparsi in tante tra le sue opere, soprattutto da quando quell’azzurro ha cominciato a manifestarsi più chiaro nel momento in cui da Anversa è giunto a Parigi. E quando poi, ben di più, ha preso un treno ed è sceso ad Arles. Ha dipinto tanti cieli che sono stati carezze e mantelli, ma anche terremoti e tempeste. Tetti di stelle a galleggiare nella volta dell’universo. E al cielo dipinto hanno guardato, ognuno a proprio modo, gli ultimi tre pittori di questo piccolo gruppo.
Piero Zuccaro il primo di questi tre. I suoi cieli così affascinanti sono la trama di una materia in cui il pittore presta il proprio corpo alla luce. Anzi, si fa egli stesso intessere di quella luce che evoca sulla superficie della tela. Il suo è un guardare subito luminoso in cui occhio e corpo sono inscindibili tra loro. Non è possibile per Zuccaro guardare solo con l’occhio fisico, perché quel cielo è completa pienezza, scandirsi della vita dentro il mito. Per raccontarlo non basta guardare, occorre partecipare allo spazio, esserne sillaba, atomo di cui è composto. Anche il modo del suo dipingere affronta questa sfida dell’esserci dentro la materia, sentirla respirare, planare e posarsi e ingigantirsi poi in gorghi e fioriture.
I suoi cieli, sulla scia di quelli di Van Gogh, sono l’esperienza del tutto, un trascorrere della luce portata da un vento invisibile che però si sente. Sono silenzio e trafittura, perfino fioritura. A volte le sue nuvole paiono proprio un grande ramo di mandorlo in fiore, così come Van Gogh lo dipinse per annunciare l’ingresso nel mondo del figlio di Theo e Jo. Dentro l’azzurro più teso e tonante che egli abbia mai concepito. Quasi astratto, di una lavagna che confina con l’assoluto.
C’è la costanza e la pazienza del guardare in questi cieli dipinti da Zuccaro. La costanza e la pazienza di applicare colore, non per gratuita e sbalorditiva sovrapposizione di strati ma per necessari assestamenti della coscienza allertata e allarmata. Possono essere tramonti di cieli arrossati, come quelli che trascorrevano sopra le vigne nella pianura della Crau. Possono essere cieli come annunci di notti sorgenti. Notti nel cielo come correnti luminose al largo del mare, alghe piene di un colpo di sole.
E invece sono nuvole, invece sono pensieri, perché questi cieli portano con sé qualcosa di tremendamente spirituale, affidato insieme appunto allo sguardo e al corpo. Sono cieli che si vedono non solo sotto i lumi dell’universo, ma forse ancor di più apparire in una stanza segreta, mentre sul pavimento si depositano, galleggiando, nuvole che profumano e crepitano di silenzi immisurabili. E il pittore li dipinge così come si dipinge una cosa naturale. Lascia che la trama del colore si frantumi, si franga, ceneri rapprese diventate acqua di laguna, nebbie, inviolate stanze nell’aria. Inviolate o violate, perché questi cieli sono adesso luoghi nell’atmosfera, pianeti roteanti. Sono cieli che danzano, si slacciano per un momento dal cammino del mondo e vivono per sé stessi, per la sola passione del mistero.
Marco Goldin
(testo di Marco Goldin estratto dal catalogo della mostra Attorno a Van Gogh. Otto pittori e i colori della vita, edizione Linea d’ombra 2021)