Pur convinto di raccontare la realtà che vede (i giardini, il porto con le navi, il mare stagnante, i riflessi dell’acqua, i cortili, le piazze), tutto poi Piero Zuccaro risolve in pittura, anzi in materia pittorica, inserendosi a pieno titolo in quelle correnti Neo-Informali che fecero seguito all’Informale storico. È vero, l’artista parte dalla realtà e dalla natura che vede (e quest’origine si conserva nei titoli delle sue opere: “Orme d’acqua”, “Sospensione”), e di essa ne custodisce memoria in un appunto, in una foto che funziona da tramite tra l’emozione (“grumo misterioso dove corpo e anima si incontrano e si riconoscono”, dice Piero Guccione) e l’immagine pittorica. Ma in questa poi poco rimane di ciò che l’ha mossa, perché l’artista non più la realtà (o la natura) vuole comunicare, ma con la pittura vuole ricostruire, rivivere e rendere fisica solo lei, l’emozione. Dice bene, infatti, Marco Goldin: “.. .non più la essenziale descrizione di una realtà assunta per brani… ma un desiderio di natura, una tumefazione del vedere”. Così a dominare è solo la pittura, tanto che guardando i suoi drammaticamente dolci dipinti è difficile scorgere quella porzione di realtà da cui sono nati, mentre più facile sarà, nel vedere un ristagno di acqua, pensare ad un suo dipinto. La sua non è, in sostanza, una rappresentazione, ma una presenza che non esprime il “sentimento della natura”, ma il “sentimento della materia”.
Avendo scelto questa visione l’artista catanese non può non avere, nella sua privata biblioteca mentale e visiva, Monet e Asger Jorn, il primo Mondrian in equilibrio tra astrazione e figurazione, così come Nicolas De Stael e i maestri dell’Informale europeo degli anni Cinquanta, e, per certi aspetti, alcuni protagonisti dell’Espressionismo astratto americano; ma il suo “neoinfornale”, se così riduttivamente si può indicare, non può per nulla essere identificato con una ripresa dell’Informale storico, né con la variante dell’ultimo naturalismo caro a Francesco Arcangeli, perché completamente ne muta la filosofia: mentre quello era “esistenziale”, il suo è “concettuale”. Più che rappresentare ciò che ha visto, Zuccaro affonda nel sottosuolo della coscienza, per attingervi lì, nel profondo di ansie con confessate, forse neanche messe a fuoco, la silenziosa marea di umori e linfe, e consentire loro di uscire allo scoperto.
Nasce proprio da qui la sua pittura umorale, delicata e sensuale, che subito appare come trattenuta da una composta impalcatura che perfettamente si regge grazie agli accordi cromatici (dai delicati azzurri ai toni bruni, dai grigi d’asfalto alle accensioni di blu) e ad una equilibrata distribuzione di pesi (è come se il gesto spontaneo seguisse una sua misteriosa geometria), tanto da mostrarsi, disdicendo il suo farsi, come una forma conclusa, immutabile. Eppure è proprio il suo dipingere che, mentre compone l’immagine, la fa scricchiolare, grazie proprio alla materia pittorica ricca di impasti in continuo movimento che dilaga sulla tela, occupandone ogni centimetro. Ciò che era superficie bianca da dipingere diventa così uno spazio carico di energia, attraversata da sotterranee tensioni, da confessioni taciute, da estenuate dolcezze, da improvvise ferite, da una sovrabbondanza di emozioni (forse, vagamente ancora legate alla natura), da un carico di ricordi e di speranze, in cui si accende e si consuma l’ansia di vivere.
A tanto l’artista perviene distribuendo con sapiente innocenza e con violento abbandono una materia pittorica che è fluida, con colori acidi e tonalità mentali (alla Forgioli, di cui accoglie il crepitante silenzio), ma anche corposa, densa, grumosa e magmatica (alla maniera di Morlotti, ma senza le sue figure), deponendo negli interstizi aperti dalle spatolate che stiacciano la superficie, una pasta distribuita a pennellate dense e spesse, che fanno pensare a Fautrier e Dubuffet.
La materia di Zuccaro è bagnata, docile, mentre dipinge; ma poi si asciuga e si cretta e di un tormento felice, cosi come di una gioia tormenta, lascia la traccia, l’impronta. Tutto si è compiuto.
Lucio Barbera
(da Il Gruppo di Scicli, 2010, palazzo Duchi di Santo Stefano, Taormina).